Le AdWords sono le parole che un utente internet inserisce in una ricerca in Google al fine di rinvenire il prodotto o il servizio a cui è interessato. Google, a sua volta, fornisce agli operatori economici un servizio a pagamento per il ‘posizionamento’ delle AdWords ed il costo è determinato dal ‘prezzo massimo per click’ vale a dire il numero di accessi sui link selezionati dagli utenti.
Più inserzionisti possono riservarsi la stessa parola chiave e in qualunque momento l’inserzionista può incentivare la propria posizione sull’elenco di Google fissando un ‘prezzo per click’ più alto oppure provando a migliorare la qualità del suo annuncio.
La disputa tra Interflora e Marks & Spencer ha preso le mosse dal fatto che Marks & Spencer, nell’ambito del servizio di posizionamento di AdWords, si era riservata la parola chiave “Interflora” venendo di tal guisa ad interferire con il motore di ricerca ed il marchio di Interflora stessa.
In Italia, avanti il Tribunale delle Imprese di Venezia, la medesima questione era stata sollevata da Obiettivo Risarcimento S.r.l., società titolare del marchio ‘obiettivo risarcimento’, e C.O.R.O.C.A. s.r.l., società operante nel medesimo settore di servizi medici e legali e nella gestione di pratiche risarcitorie. In particolare, quest’ultima, aveva utilizzato la dicitura “obiettivo risarcimento”, che costituisce solo una parte del più complesso marchio figurativo registrato dalla concorrente Obiettivo Risarcimento S.r.l., sia come parola chiave nella ricerca in internet del proprio nome a dominio (c.d. “metatag”) che al fine di posizionare e promuovere lo stesso (c.d. “Adwords”).
Secondo entrambe le pronunce, Tribunale delle Imprese di Venezia ordinanza 19 aprile 2013 nel caso ‘Obiettivo Risarcimento’ contro C.O.R.O.C.A. s.r.l e Alta Corte dell’Inghilterra e del Galles specializzata in materia di proprietà intellettuale nel caso Interflora / Marks & Spencer 15/18/22 Aprile 2013, usare i segni distintivi del concorrente, quali parole chiave per le ricerche in internet tramite Google, costituisce ‘illecito da contraffazione’.
Il caso Interflora / Marks & Spencer ha avuto varie ed alterne vicende che hanno visto anche il coinvolgimento della Corte di Giustizia Europea, chiamata a pronunciarsi sulla domanda pregiudiziale posta dall’Alta Corte di Giustizia dell’Inghilterra e Galles.
La Corte di Giustizia, infatti, era stata invocata dalla Corte inglese a pronunciarsi sulla interpretazione dell’art. 5 della prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, nonch’ sull’art. 9 del regolamento n. 40/94 (seppure successivamente abrogati dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 22 ottobre 2008, 2008/95/CE e dal regolamento CE del Consiglio 26 febbraio 2009 n. 207, sul marchio comunitario).
La Corte di Giustizia, nell’analizzare le questioni poste alla sua attenzione, ha preliminarmente analizzato le ‘funzioni del marchio’ e le modalità con cui le AdWords vengono a violare ciascuna funzione come di seguito si riporta:
- funzione di indicazione d’origine: una parola chiave identica ad un marchio costituisce violazione di tale funzione ‘quando l’annuncio non consente o consente soltanto difficilmente all’utente internet normalmente informato e ragionevolmente attendo di sapere se i prodotti o i servizi a cui l’annuncio si riferisce provengano dal titolare del marchio o da un’impresa economicamente collegata a quest’ultimo oppure, al contrario, da un terzo’.
- funzione di pubblicità: l’uso di un segno identico ad un marchio altrui nell’ambito di un servizio di posizionamento di AdWords non è idoneo a compromettere la funzione di pubblicità; ‘qualora il titolare di un marchio iscrive il proprio marchio come parola chiave presso il fornitore del servizio di posizionamento, al fine di far appraire un annuncio nella rubrica ‘link sponsorizzati’, egli dovrà talvolta, qualora il suo marchio sia stato scelto come parola chiave da un concorrente, pagare un prezzo per il click più elevato rispetto a quello di detto concorrente se vuole ottenere che il suo annuncio compaia prima di quest’ultimo’.
- funzione di investimento: ricorre tale funzione quando il titolare utilizza il marchio ‘per acquisire o mantenere una reputazione che possa attirare i consumatori e renderli fedeli’ e l’utilizzo da parte di un concorrente di un segno identico per prodotti o servizi identici a quelli per cui il marchio è stato registrato costituisce violazione della funzione di investimento del marchio.
Conclude, quindi, la sentenza della Corte di Giustizia affermando:
Gli artt. 5, n. 2, della direttiva 89/104 e 9, n. 1, lett. c), del regolamento n. 40/94 devono essere interpretati nel senso che il titolare di un marchio che gode di notorietà ha il diritto di vietare ad un concorrente di fare pubblicità a partire da una parola chiave corrispondente a tale marchio che il suddetto concorrente, senza il consenso del titolare del marchio, ha scelto nell’ambito di un servizio di posizionamento su Internet, qualora detto concorrente tragga così indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio (parassitismo) oppure qualora tale pubblicità arrechi pregiudizio a detto carattere distintivo (diluizione) o a detta notorietà (corrosione).
Un annuncio pubblicitario a partire da una parola chiave siffatta arreca pregiudizio al carattere distintivo del marchio che gode di notorietà (diluizione), in particolare, ove contribuisca a trasformare la natura di tale marchio rendendolo un termine generico.
Per contro, il titolare di un marchio che gode di notorietà non può vietare, in particolare, annunci pubblicitari fatti comparire dai suoi concorrenti a partire da parole chiave che corrispondono a detto marchio e propongono, senza offrire una semplice imitazione dei prodotti e dei servizi del titolare di tale marchio, senza provocare una diluizione o una corrosione e senza peraltro arrecare pregiudizio alle funzioni di detto marchio che gode di notorietà, un’alternativa rispetto ai prodotti o ai servizi del titolare di detto marchi.
La Corte Inglese ha applicato i principi adottati dalla Corte di Giustizia Europea al caso Interflora nella sentenza emessa il 21 maggio scorso (Interflora Inc v Marks & Spencer Plc [2013] EWHC 1291 (Ch)).
Interflora adduceva che l’uso del marchio “Interflora” da parte di Marks & Spencer avrebbe violato (o avrebbe potuto violare) le funzioni di indicazione di origine e di investimento del marchio. La funzione di pubblicità non era oggetto di disputa.
Per quanto riguarda la funzione di investimento, la Corte Inglese ha stabilito che “qualora le AdWords di un terzo arrechino pregiudizio alla reputazione di un marchio, ad esempio quando l’immagine che il marchio proietti sia danneggiata, allora si puo` parlare di pregiudizio della funzione di investimento”.
In questo caso, considerata l’assenza di prove che le AdWords di Marks & Spencer arrecassero pregiudizio alla reputazione dei marchi di Interflora, al punto da danneggiarne l’immagine, la Corte ha concluso che la funzione di investimento non fosse stata violata.
In relazione alla funzione di indicazione di origine, la Corte ha identificato i seguenti principi:
- la funzione di indicazione di origine viene violata da AdWords qualora la pubblicità non consenta, o consenta solo difficilmente, all’utente Internet normalmente informato e ragionevolmente attento di stabilire se i prodotti o servizi a cui l’annuncio si riferisce provengano dal titolare del marchio oppure da un terzo;
- L’onere di assicurarsi che tale utente non abbia difficoltà nello stabilire l’origine del marchio, e che pertanto non ci siano rischi di confusione, incombe sull’inserzionista ;
- Al fine di stabilire se vi sia pregiudizio, non è sufficiente che solo alcuni utenti Internet abbiano difficoltà nel comprendere che i prodotti o servizi pubblicizzati siano indipendenti dal proprietario del marchio;
- Se la pubblicità causa ad una sezione rilevante del pubblico di erroneamente credere che i prodotti o servizi siano connessi al proprietario del marchio, allora il pregiudizio è stabilito;
- Nel contesto del caso in questione, è rilevante considerare se l’utente normalmente informato e ragionevolmente attento sia consapevole che il servizio offerto da M&S non sia parte del network di Interflora e nel caso in cui non lo sia, stabilire se la pubblicità di M&S consenta a tale utente di determinarlo.”
Applicando questi principi la Corte inglese ha concluso che Marks & Spencer avesse violato i marchi di Interflora ai sensi dell’art.5 (1) (a) della Direttiva e art.9 (1) (a) del Regolamento. In particolare, seguendo i tre fattori identificati dalla Corte Europea:
- Non era generalmente riconosciuto che l’utente normalmente informato e ragionevolmente attento fosse consapevole “sulla base della sua conoscenza generale del mercato” che il servizio offerto da Marks & Spencer non facesse parte del network di Interflora ma che fosse invece in competizione con esso.
- Le pubblicitàdi Marks & Spencer non consentivano a tale utente di stabilire se i servizi offerti da Marks & Spencer non facessero parte del network di Interflora .
- La natura del network di Interflora poteva rendere particolarmente difficile per tale utente determinare se i servizi offerti da Marks & Spencer facessero parte del network o meno.
In questo caso, pertanto, la Corte ha stabilito che le pubblicità di Marks & Spencer non consentissero, o consentissero solo difficilmente, all’utente normalmente informato e ragionevolmente attento di stabilire se i servizi pubblicizzati originassero da Interflora, o da un’impresa economicamente collegata ad Interflora, oppure da un terzo.
La Corte ha considerato che un numero significativo di utenti fossero portati a credere che il servizio offerto da Marks & Spencer fosse parte del network Interflora. L’uso dei segni Interflora da parte di Marks & Spencer avrebbe pertanto violato la funzione di indicazione di origine del marchio.
L’ordinanza veneziana, pronunciata a conclusione di un procedimento a cognizione solo sommaria, prescinde, a differenza delle pronunce della Corte Europea di Giustizia e dell’Alta Corte di Giustizia di Inghilterra e del Galles, da valutazioni circa la funzione del segno distintivo o dell’Adwords.
Riconoscendo, in via preliminare, che la dicitura “obiettivo risarcimento” sarebbe stata oggetto di numerosi investimenti pubblicitari nel tempo tali da determinarne una notorietà nel pubblico, così da garantirne la validità (in virtù del c.d. “secondary meaning”) la Sezione Specializzata di Venezia ha fatto propri i principi espressi dall’Alta Corte di Giustizia dell’Inghilterra e del Galles affermando che:
l’utilizzo delle keyword “obiettivo” e “risarcimento” per aprire link sponsorizzati, parole riproducenti il segno distintivo della ricorrente … costituisce illecito di contraffazione in quanto detto uso, ovviamente in funzione distintiva dei medesimi servizi in concorrenza, equivale ad agganciare illecitamente il sito sponsorizzato al marchio altrui, cosi sfruttandone la già affermata notorietà”;
ai sensi dell’art. 22 cpi, è vietato adottare, indipendentemente dalla buona fede dell’utilizzatore, qualsivoglia segno distintivo, ivi comprese espressioni aventi finalità distintive all’interno di meta-tag, che – identico o simile al marchio altrui ed a causa dell’identità o affinità tra le attività di impresa con i servizi resi dal titolare del marchio – possa determinare un rischio di confusione per il pubblico, tale da consistere, come nel caso di specie, anche nella semplice associazione fra i due segni, fruendo indebitamente 1’imitatore della notorietà del marchio altrui”.
In definitiva la società concorrente (C.O.R.O.CA) è stata condannata dal Tribunale di Venezia a “non utilizzare, come keyword per le ricerche internet tramite Google ed in ogni altro modo in ambito web, le parole “obiettivo risarcimento””.
Esula dallo scopo della presente analisi ogni valutazione circa l’efficacia e la forza del marchio “obiettivo risarcimento” che, lo si può comunque accennare, potrebbe essere astrattamente considerato invalido, ai sensi dell’art. 13 CPI, per la funzione descrittiva che verrebbe ad assumere in merito alla “finalità risarcitoria” sottesa al servizio offerto.
Ciò che più rileva sono invece le affermazioni contenute nell’ordinanza veneziana perchè abbastanza nuove nel panorama giurisprudenziale italiano; infatti, un primo orientamento giurisprudenziale (ben espresso dall’ordinanza del Tribunale di Roma del 18.01.2001 con commento di R. Sciaudone in Riv. Dir. Ind. 2002, II, 189 e di P. Sammarco in Dir. Inf. I, 2001; si veda anche Trib. Milano 08.02.2002 in AIDA 2002 e Trib. Napoli 28.01.2001 in Dir. Inf. 2002) escludeva espressamente la “contraffazione” ma ammetteva la possibilità di sanzionare condotte come quella in esame solo in virtù dei principi di concorrenza sleale (art. 2598 c.c.), in presenza di una condotta, imputabile ad un concorrente, di tipo “parassitario”.
E ciò perchè se, da un lato, si tendeva ad escludere che il pubblico di internet potesse essere tratto in inganno dall’utilizzo, sulle pagine web, di segni distintivi altrui al solo fine di indirizzare la ricerca del motore telematico, dall’altro si preferiva relegare la sanzionabilità di tali condotte alle sole ipotesi, contraddistinte da mala fede, di illecita concorrenza tra imprenditori.
Solo di recente la giurisprudenza e la dottrina italiana (in particolare si vedano Trib. Milano 14.11.2005 in GDI 2005 e 08.08.2007 in GDI 2007) hanno affermato la possibilità di scomodare anche i principi contenuti nel Codice della Proprietà Industriale in tema di contraffazione di marchio (art. 20).
E ciò perchè si è iniziato a porre l’attenzione sulla circostanza, evidenziata dalla dottrina maggioritaria (tra tutti si veda il contributo di E. Tosi), che l’utilizzo sul web di segni corrispondenti a marchi registrati è idonea sia ad orientare le scelte dell’utente consumatore, inducendolo in errore, sia ad appropriarsi, illecitamente, della notorietà del segno altrui, se sussistente.
Argomentando in questi termini, il giudizio di contraffazione prescinde, come nel caso “obiettivo risarcimento”, da ogni valutazione circa l’elemento della concorrenzialità al punto tale da sanzionare chiunque, anche “indipendentemente dalla buona fede dell’utilizzatore”, utilizzi una dicitura che costituisce un segno distintivo su cui terzi, anche non concorrenti, vantano diritti di esclusiva.
In particolare, ai sensi dell’art. 20 CPI, è sanzionata sia la riproduzione (anche parziale) di un marchio, sia qualora ciò determini “un rischio di confusione o associazione per il pubblico” (art. 20 n. 2 CPI) sia quando consenta di trarre un “indebito vantaggio” dalla rinomanza del segno altrui” (art. 20 n.3 CPI).
Per converso, si deve però affermare che dovrà andare indenne da censura la condotta con cui ci si limiti a riprodurre il segno distintivo altrui al solo fine di descriverlo o compararlo con altri marchi, come ad esempio avviene di frequente nei vari “blog”, oppure ove la dicitura riportata sia idonea di per sè ad identificare il servizio pubblicizzato sul sito in questione, esulando queste condotte dai criteri affermati dalle pronunce fin qui analizzate.
Venezia/Londra, 31 luglio 2013
Avv. Lucia Loprieno
Barbara Rizzi (Solicitor)
dott. Nicolò Romanato (dottorando presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia)
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